Ritagli capovolti: È diventato una donna e non trova più lavoro (da «Stampa Sera» del 24 ottobre 1972)
Penosa vicenda di un domestico - «Ho speso tre milioni per un’operazione chirurgica in Svizzera» - Una lunga pratica per essere finalmente iscritto all’anagrafe con il nome di «Ines»
Oggi abbiamo pensato di estrarre dal nostro archivio un articolo apparso sul quotidiano pomeridiano «Stampa Sera» il 24 ottobre 1972. Se questa proposta raccoglie il vostro gradimento non dimenticate di aggiungere un like (🩶) o di lasciare un commento.
Coloro che hanno già avuto occasione di leggere il primo volume di Le Radici dell’Orgoglio, sanno che la stampa popolare ha cominciato a interessarsi con curiosità al fenomeno dei travestiti sin dall’inizio degli anni Sessanta, quando queste esotiche figure fecero la loro prorompente comparsa nel mondo dell’intrattenimento più audace.
Basti pensare alla biondissima e procace Coccinelle, (Parigi, 23 agosto 1931 – Marsiglia, 9 ottobre 2006; pseudonimo di Jaques Charles Dufresnoy, divenuto, in seguito ad un’operazione chirurgica eseguita a Casablanca, Jacqueline-Charlotte), già attiva negli anni Cinquanta nei cabaret parigini - come, ad esempio, il celebre “Madame Arthur” - e introdotta al provinciale pubblico italiano dal documentario del 1959 Europa di notte di Alessandro Blasetti e dal lungometraggio del 1962 I dongiovanni della costa azzurra di Vittorio Sala (per i più attenti, nel cast, nel ruolo di una cameriera, anche una giovanissima Raffaella Carrà).
Qui di seguito un servizio della Settimana Incom del 3 novembre 1961 in cui si annuncia che Coccinelle si sposa, cosa effettivamente avvenuta nel 1960 nientemeno che nella cattedrale di Notre-Dame di Parigi.
Quindi, se negli anni Sessanta si codifica nei media la figura del travestito - a partire dal 1963 con sempre maggiore frequenza e solitamente in articoli che lo associano al mondo della prostituzione e con tutto il conseguente corredo linguistico per esprimere riprovazione e fastidio -, negli anni Settanta inizia a manifestarsi sulla stampa popolare quella del transessuale (oggi questo termine non viene più considerato corretto e gli si preferisce transgender o più semplicemente trans).
Da subito è importante precisare che i due termini a lungo sarebbero stati maneggiati con scarsa cura da giornalisti e lettori, i quali spesso li avrebbero percepiti come del tutto sovrapponibili. D’altra parte, ancora all’inizio degli anni Settanta, sovente i quotidiani identificavano tout court il travestito con l’omosessuale maschio e viceversa.
Certo, nel 1952 Christine Jorgensen aveva creato una sensazione planetaria con la sua sbalorditiva vicenda, ma ci vorrà una buona ventina di anni prima che nel nostro paese il fenomeno delle persone transgender inizi ad assumere uno spessore mediatico rilevante (vedi, ad esempio, il caso tutto nostrano di Romina Cecconi, detta la Romanina).
Qui abbiamo raccontato la storia di Christine Jorgensen:
Peraltro, è proprio negli anni Settanta che il percorso di vita e di affermazione di genere delle persone trans si rivela sempre più complesso e accidentato, dal momento che una sentenza della Corte di Cassazione prima (1974) ed una della Corte Costituzionale poi (1979), bloccano di fatto qualunque possibilità di poter ottenere il cambio di nome all’anagrafe.
Proprio per lottare contro queste difficoltà all’inizio del 1980 sarebbe nato il M.I.T., allora Movimento italiano transessuali, oggi Movimento identità trans, di cui abbiamo raccontato l’eroica avventura nell’episodio n. 14 del podcast Le Radici dell’Orgoglio.
L’articolo di «Stampa Sera» dell’ottobre 1972 è quindi un documento decisamente interessante non solo al fine di comprendere la condizione trans prima del riconoscimento giuridico del fenomeno avvenuto grazie all’approvazione della legge 164 dell'aprile del 1982 («Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso»), ma anche per l’inattesa e sorprendente empatia che ci pare di cogliere nel testo.
«Quando presento i documenti per ottenere un lavoro o anche solo una camera d’albergo mi guardano a volte stupefatti, altre volte ironici. Mi chiedono se quella carta d’identità è di mio figlio o di mio fratello. Non è che un aspetto del mio dramma: da tutta la vita non faccio altro che passare da una sofferenza all’altra».
Si chiama «Ines», anche se all’anagrafe è registrata con un nome maschile. È uno degli uomini diventati donna, almeno sul piano anatomico, grazie a una costosa operazione in Svizzera. È venuto (o venuta? anche il cronista ha i suoi «drammi» di grammatica) per raccontarci la sua storia. «Perché si sappia che esistiamo anche noi», dice.
Non è un travestito di quelli che sfilano gridando insulti davanti alla Questura, non è neppure un omosessuale che, come ora usa, meni vanto della sua «diversità». È una persona di 48 anni che ha dietro di sé una vita difficilissima che ha sempre tentato di affrontare con onestà. «Ora non ce la faccio più ad andare avanti, sono stufa di combattere contro un mondo che non accetta la mia situazione» dice disperata «Ines».
È nata vicino a Trieste, in una famiglia patriarcale, con tanti bambini. «Si accorsero subito che ai calzoncini dei maschietti preferivo i grembiulini delle mie sorelline», racconta. I genitori cercarono di ignorare il problema, convinsero il bambino che era come tutti gli altri, «soltanto un po’ più delicato, ecco». A 14 anni scappò di casa e cominciò il vagabondaggio. «A un certo punto, pensando di sfuggire così ai miei problemi, andai addirittura in convento, ma neppure quella soluzione era la giusta».
Ha lavorato come domestico a Roma, poi come impiegato al consolato americano. «Durava qualche anno, poi mi dicevano che era meglio per tutti se me ne andavo». Da anni è a Torino, dove ha vissuto lavorando per un’impresa di pulizie: «Sempre senza libretti, mai a posto sul piano sindacale: è evidente che i datori di lavoro approfittavano della mia situazione».
Meno di due anni fa, la decisione di operarsi in Svizzera. «L’intervento è riuscito perfettamente, ma non per questo i miei problemi sono finiti. Si sono anzi aggravati. Ho dovuto pagare tre milioni al chirurgo, ora un avvocato mi chiede un altro milione per portare avanti la pratica, che dura da anni, per il cambiamento di sesso all’anagrafe. Ho già speso tutti i miei risparmi, non ho più una lira per il legale».
Intanto ha rivolto un’istanza al Presidente della Repubblica1 perché, con un suo decreto, le conceda di chiamarsi «Ines» e di abbandonate il suo nome maschile. Dal Quirinale nessuno finora ha risposto.2
Il Presidente della Repubblica in carica nel 1972 era Giovanni Leone.
Anonimo, È diventato una donna e non trova più lavoro, su «Stampa Sera» del 24 ottobre 1972, pag. 4.